A.S.P.C.C.- Criminologia
martedì 25 marzo 2014
martedì 2 ottobre 2012
In realtà molti degli omicidi che non comportano evidenti vantaggi utilitaristici per l’assassino (privi di movente), portano quasi sempre dei vantaggi per l’autore, i quali vanno analizzati all’interno di dinamiche psicologiche, molto profonde e talvolta segnate dalla psicopatologia.
In questi casi è quindi più corretto parlare di motivazione omicidiaria anziché di movente poiché la spinta endogena, il guadagno ottenibile, non è di natura materiale, ma di tipo psicologico e quindi espressivo.
Anche il concetto di raptus risulta in quest’ottica a mio avviso poco adatto alla spiegazione degli omicidi, sia sotto l’aspetto criminologico che sotto quello medico-psichiatrico.
La malattia mentale, come ogni malattia, ha infatti un suo corso, ha suoi sintomi, i suoi segnali, le sue crisi acute.
mercoledì 21 marzo 2012
IL CANNIBALISMO: UNA FORMA DI PERVERSIONE NEI CRIMINI SERIALI? Seminario del Prof.Andrea Feltri- Criminologo-
ILCANNIBALISMO: una forma di perversione nei crimini seriali?
Seminario del Prof. Andrea Feltri (Criminologo)
ILCANNIBALISMO: una forma di perversione nei crimini seriali?
Il termine cannibalismo deriva dalla parola canìbales nome spagnolo dei caribi, gruppo di indiani d'America presunti antropofagi. Come definire il cannibalismo? Una perversione, una degenerazione, una strana pratica nutritiva , o un'usanza radicata in popoli primitivi…..per cui gli uomini mangiano carne umana; In passato il cannibalismo era praticato come una sorta di rituale magico durante le battaglie. Dopo un duello, una lotta, il guerriero vincitore usava mangiare parti del suo avversario sconfitto, per assumere, incorporare, interiorizzare le sue abilità: forza, astuzia, coraggio etc. Quindi, il cannibalismo aveva una funzione prettamente simbolica.
“Canis caninam non est “ .“Cane non mangia cane . L’Uomo non mangia i suoi consimili” sentenziavano i Latini. Ma perché?
Molto probabilmente il tabù del cannibalismo, (così come quello dell’incesto, nato per evitare una stagnazione del patrimonio cromosomico e, quindi, processi degenerativi) affonda le sue radici in un sorta di comando genetico. Secondo ricerche scientifiche condotte da David Plennig - uno zoologo americano, si pensa che un animale cannibale rischia di venire contagiato e ucciso da germi che nell’organismo cannibalizzato avevano stabilito una sorta di silente, e relativamente pacifica, convivenza.
Anche nelle comunità umane che, per motivi religiosi, praticano, se pur raramente, l’antropofagia è stato riscontrato un aumento della mortalità per infezioni. Il caso più conosciuto è certamente quello del Kuru, una malattia ad esito mortale che decimava i membri della tribù dei Kore in Nuova Guinea i quali usavano onorare i defunti mangiandone il cervello.
Ma torniamo al cannibalismo umano. Gli antropologi, di massima, lo classificano in relazione all’oggetto;
-autocannibalismo, quando è rivolto al proprio corpo, ad esempio mangiarsi le unghie o l’interno delle guance fino all'autotortura;
-esocannibalismo, quando ha come oggetto individui non facenti parte della comunità;
-endocannibalismo, riferito al consumo di individui all'interno dello stesso gruppo.
Sembrerebbe che l’espressione “ti mangio” rivolta alla persona amata ha una valenza aggressiva, di possesso totale, ma anche di affetto. E' l'idea simbolica di introiettare, attraverso la bocca, l'altra persona. All'origine di questi comportamenti c'è il “pasto cannibalico” che il bambino fa della madre succhiando il suo latte.
In questo gesto il seno materno assume un significato profondamente affettivo, ma è anche l'unico oggetto contro il quale il bambino può esercitare le sue pulsioni negative.
Freud, definì questa prima fase dello sviluppo fisico e psicologico “fase orale”, durante la quale il bambino sperimenta oggetti e sensazioni attraverso la bocca. Ogni individuo attraversa la fase orale, pertanto esplora il mondo inizialmente con la bocca; per questo non dobbiamo stupirci se in noi rimangono dei modi di dire, e delle fantasie in cui simbolicamente utilizziamo la bocca per comunicare in modo che non è solo verbale.
- Ma la patologia di questo impulso può portare al cannibalismo criminale. Difatti, in molti serial killer questo tipo di comportamento patologico ed irrefrenabile, ha la stessa radice di un qualsiasi comportamento affettivo che, mentre, nella persona normale si esaurisce in un bacio o in morsetti affettuosi, in un individuo con disordini psicologici, diventa un fatto da vivere fino in fondo. Il serial killer ha il bisogno di possedere completamente quella certa persona per poterne fare ciò che vuole, e, poiché ha difficoltà, addirittura paura, a relazionarsi normalmente con una persona viva, la vuole morta. Non per vendetta, ma per poterla manipolare, per poter avere rapporti anche carnali con essa. Alcuni serial killer, volendo relazionarsi anche sul piano della “amicizia”, oltre ad uccidere, arrivano a squartare la vittima per poi mangiarla. Dal punto di vista neurofisiologico questi soggetti possono essere anche schizofrenici, tuttavia, la casistica ci dice, che non tutti sono malati mentali. Si tratta di persone che sicuramente sono incapaci di controllare gli impulsi ed hanno sicuramente, soprattutto i serial killer, l'inversione dell'impulso che all'uomo normale fa rifuggire la morte .Si riporta di seguito alcuni dei personaggi ritenuti piu terribili cannibali serial killer al mondo:
- Andrea Chikatilo, il “Mostro di Rostoff”; tra il 1982 e il 1991 si è mangiato almeno 55 bambini;
- Jeffrey Damer, il “Mostro di Milwakee”: tra il 1985 e il 1994 si è mangiato almeno undici persone;
- Peter Custen, il “Mostro di Dusseldorf”: agli inizi del secolo si è mangiato almeno nove donne;
- Fiedrich Haarmann, il “Mostro di Hannover”: tra il 1918 e il 1927 si mangiò almeno 27 adolescenti;
- Nikolaj Dzhumagaliev, , il "Mostro di Alma Ata”: tra il 1947 e il 1988 si è mangiato almeno cento donne;
- Tsutomu Miyazaki, il “Mostro di Tokyo”: tra il 1970 e il 1989 si è mangiato almeno quattro bambine;
- Issei Sagawa, il “(Piccolo) Mostro di Parigi”: nel 1981 a Parigi uccise e mangiò la studentessa francese Renée Hartvelt colpevole di averlo respinto. Nonostante una sola vittima nel suo carniere, il buon Sagawa è riuscito a conquistarsi una certa notorietà e un posto d’onore nella Serial Killer Enciclopedia rilasciando interviste e tenendo conferenze all’Università.
lunedì 9 gennaio 2012
Origini, evoluzione e trasformazione del fonomeno settario- Prof. Andrea Feltri- Criminologo-Cultore del fenomeno settario
Origine, evoluzione e trasformazione del fenomeno settario
e l’interazione con la società
Andrea Feltri
(Criminologo clinico, Criminalista, esperto di macrosistemi organizzativi di tipo settario)
“I culti messianici del nostro tempo
non cadono dal cielo,
crescono piuttosto dal centro della società
che è interiormente malata”
(Kaberman)
Oggigiorno, la nostra società vive in una profonda crisi di identità ,in un periodo di continue trasformazioni e di disordini con un aumento progressivo di reazioni incongrue e diversificate.
Inutile nascondere che la paura del futuro è alquanto diffusa,la sensazione di inguaribilità della società, il timore della tragedia incombente,inducono alla ricerca di soluzioni alternative con una modalità di fuga e di abbandono.
Senza meno le motivazioni specifiche che stimolano la costituzione ovvero la nascita di una “setta” si trovano generalmente nei profondi disagi e nei conflitti, annidati all’interno di una società .
Cambiamenti nella posizione economica di un particolare gruppo,alterazioni dei normali rapporti sociali che si hanno in caso di rapida industrializzazione e conseguente urbanizzazione,l’incapacità del sistema sociale di rispondere alle esigenze di alcuni gruppi,particolari per età,sesso,status,sono tutti possibili stimoli. Sono bisogni a cui una setta risponde fornendo varie soluzioni all’insicurezza ed all’ansia.
Evidentemente l’esperienza del “no future” è più marcata nei giovani che hanno ancora davanti a sè
buona parte del loro futuro personale.
Tutti gli uomini in circostanze “catastrofiche” o vissute come tali, che minacciano l'integrità individuale
o l'integrità del proprio ruolo nella società, tendono a rivolgersi alla religione.
Le chiese ufficiali, attualmente, sono avvertite, soprattutto dai giovani, troppo attaccate al vecchio
sistema incurabile ed a volte con esso conniventi o viceversa come una panacea a tutti i mali che una
società può presentare per cui possono essere antagoniste o protagoniste di conflitti non sempre solo
religiosi.
Wilson ha proposto una classificazione dei tipi di sette che si basa essenzialmente sulla risposta che un
gruppo può dare ai valori prevalenti della società:
1. le sette Conversionistiche;
2. le sette avventistiche;
3. le sette introversionistiche;
4. le sete gnostiche;
Le sette Conversionistiche cercano di cambiare l'uomo e con esso il mondo, la risposta è l'ottimismo e
la buona volontà.
Le sette Avventiste perseguono cambiamenti drastici del mondo in vista del Nuovo Avvento, la risposta è un determinismo pessimistico.
Le sette Introversionistiche rifiutano i valori del mondo e li sostituiscono con valori interiori più alti per cui sono coltivate solo le risorse interiori.
Le sette Gnostiche accettano gran parte delle mete della società, ma cercano di raggiungerle con mezzi
esoterici: la risposta è un misticismo fatto di desiderio.
.
Come ha osservato lo stesso Wilson vi è una sorta di corrispondenza fra le istanze individuali e le
risposte che la setta dà e che possono essere assimilati alla tipologia dei meccanismi di adattamento
individuale definiti da R. Merton nel suo testo “Struttura sociale ed anomia”. Difatti vi è una certa
corrispondenza, per esempio, fra le introversionistiche e le istanze astensioristiche, fra sette
rivoluzionarie ed impulsi di ribellione, fra le sette gnostiche ed i comportamenti innovativi. Il tipo di
risposta conformista di Merton può assumere valore nel momento in cui l'individuo agisce la scelta nel
ventaglio delle sette. Si stabilisce, così, una relazione circolare del tipo S-R-S: dalle sette all'individuo
come risposta di un qualcosa e dall'individuo come istanza di qualcosa alle sette.
Gli studiosi di questo fenomeno religioso hanno operato delle distinzioni fra sette, culto,
denominazione, religione. La definizione della tipologia del fenomeno si può attuare in base ad alcuni
parametri come la legittimazione che può essere pluralistica o esclusiva: la chiesa ha una legittimazione
esclusiva e rispettabile; la setta ha una legittimazione esclusiva e deviante, la denominazione, una
legittimazione pluralistica rispettabile, il culto è deviante ed inserito in una legittimazione pluralistica.
È stato oggetto di discussione e di riflessione da parte di molti studiosi dell’argomento circa la
definizione da dare al fenomeno “sette”. Il termine sette riveste sempre una connotazione dispregiativa
e non sembra essere esaustivo delle motivazioni personali e sociali che sottendono alla nascita di questo
fenomeno. Sarebbe, infatti, corretto parlare di culto emergente e di “milieu cultico” in quanto il culto di
per sé è portatore di idee innovative, anche se divergenti da quelle comuni della società o della chiesa
ufficiale. L’entroterra culturale in cui si sviluppa il culto emergente è rappresentato da uno speciale
ambiente fuori del quale, i culti, se non si trasformano, muoiono. Esso è costituito da tutti i sistemi di
credenze devianti e dalle pratiche ad essi associate. Ne sono un esempio la scienza non ortodossa, le
religioni estranee ed eretiche, la medicina alternativa e tutto ciò che comprende elementi di questo
entroterra con inclusione anche dei mondi dell'occulto e del magico, dello spiritualismo e dei fenomeni
parapsichici, del “Nuovo Pensiero”, della New Age e delle cure attraverso la fede e di quelle naturali.
Questo assortimento eterogeneo di items culturali diversi, costituisce una singola entità: il “milieu
cultico”. L’evoluzione sequenziale che si osserva nella definizione del fenomeno ci dà un’idea del
continuum sociale dello stesso. La sequenza, infatti, di culto-setta-denominazione-religione, rappresenta
un continuum in cui ogni distinzione precisa, se pur utile, ha sempre qualcosa di arbitrario.
Attualmente è in uso definire tutto il fenomeno nel termine onnicomprensivo e dispregiativo di “sette”.
Esse rappresentano un’emergenza della società che si articola in vari punti:
l'esistenza di un capo carismatico, che afferma di essere dotato di una dottrina speciale di salvezza e che
si circonda di un gruppo di giovani su cui domina con l'autorità e con il ruolo di padre. La conseguenza
ovvia di tale relazione è quella di spezzare il legame con la famiglia naturale. Il capo pone regole rigide
ed assolute con forte senso gerarchico. Sono presenti una spasmodica attesa di qualcosa, di
un’innovazione, di un miglioramento a cui gli adepti si preparano con nuovi valori, il desiderio e la
determinazione di affermarsi, di emergere. Attraverso quest’analisi si giunge alla formulazione di un
unico denominatore che è il culto emergente. I culti emergenti danno delle risposte alle istanze, ai
bisogni dell'individuo secondo una relazione circolare. Questo rapporto autoregolantesi può subire
variazioni e riassestarsi su nuove modalità quando il culto cambia tipo di risposta per trasformazione
interna. Partendo proprio dalla definizione si può dare del culto emergente un'attribuzione di sistema.
Questo sistema soddisfa le tre caratteriste che E. Morin nel “Il Metodo” attribuisce al sistema stesso:
l'organizzazione, l'unità globale e le emergenze. Il culto emergente, infatti, è un'organizzazione
gerarchica con al vertice un capo carismatico o un'oligarchia di anziani, è caratterizzato da idee
innovative che propongono un quid novi rispetto a quelli tradizionali. Le relazioni fra gli adepti ad un
culto e la loro totalità non formano un sistema se non interviene l'idea della organizzazione ad
interconnettere le interazioni e la totalità. Nasce così, il culto come sistema con un'organizzazione, con
un determinismo interno, regole e subordinazione ad un capo. Dall'organizzazione e dalla globalità
emergono le nuove qualità, i valori innovativi (le emergenze) che creano una soluzione di continuo con
quelli tradizionali e che danno al culto la connotazione di marginalità.
In relazione alla società il culto è un sottosistema. La società rappresenta il sistema che lo contiene e lo
controlla ed al quale il culto è subordinato. Da questa angolazione il culto, subordinato alle regole della
società, si delinea come attore sociale per il quale sono validi tutti i vincoli che si impongono ai
partecipanti di un'organizzazione.
Come affermano Crozier e Friedberg un vincolo essenziale nell'organizzazione è il potere che è
inesistente in sè ma che si attualizza quando si stabilisce una relazione fra attori che accettano di legarsi
o che sono legati di fatto. In effetti il culto e la società sono legati. La prima grande fonte di potere è il
possesso di una specializzazione, di una competenza. Nell'analisi del fenomeno religioso appare
evidente che la competenza del religioso spetta alla religione ufficiale, istituzionale, unica depositaria del
tramite con il divino, questa competenza è ufficialmente riconosciuta e quindi fonte di potere. Il culto
emergente si trova nella posizione di avere come obiettivo, da cui dipende la sopravvivenza dei suoi
valori e di sè stesso, la conquista del potere nell'ambito del sistema più vasto che lo contiene. Il potere si
esercita da parte degli attori sociali, nell'ambito della società, cercando di circoscrivere e di controllare
una vasta area di “zone organizzative di incertezza”. Più estesa è la zona di incertezza tenuta sotto
controllo da parte di un attore sociale, più grande sarà il potere. Il culto non potrà, ovviamente, avere
sotto controllo molte zone organizzative di incertezza sia in relazione alla società sia alla chiesa ufficiale.
Nell'ambito di una società come sistema, l'organizzazione regolarizza l'andamento dei rapporti di
potere. Da un lato influenza la “capacità” dei suoi membri di acquisire delle risorse, delle
specializzazioni, dall'altro condiziona la loro “volontà” di servirsene realmente, fissando delle
“poste”anche arbitrarie, mutevoli e casuali e non sempre sufficientemente pertinenti e talmente
importanti da giustificare la mobilitazione di risorse per affrontare i relativi rischi.
In questo rapporto di potere, proprio- della nostra organizzazione sociale, non tutti i partecipanti hanno le
stesse risorse, non per tutti vengono fissate delle “poste” pertinenti e “mobilitabili” e costoro sono
quindi esclusi dal gioco. “Le Jeux sont faits” e i giocatori-attori sociali dovranno “puntare” altrove. Non
sempre i partecipanti riescono a “puntare” e a vincere, non sempre sono in grado di reggere e portare
avanti il gioco del potere. Questa frangia di partecipanti-giocatori, sconfitti, frustrati, forma quello che
Toynbee chiama “proletariato interno”. La caratteristica del proletariato non è la povertà o la bassa
estrazione sociale, ma la consapevolezza, ed il conseguente risentimento, di essere defraudati del posto
nella società che di diritto spetta. Il proletariato interno ed i giovani, ancora non impegnati nel gioco del
potere, rappresentano la zona organizzativa di incertezza di cui potenzialmente si può appropriare il
culto sia nei confronti della Società che della Chiesa ufficiale. Il culto, a sua volta, si impegna nel gioco
con l'obiettivo di trasformarsi ed acquisire il potere riconosciuto nella istituzionalizzazione del religioso
e di quei valori innovativi che rappresentano all'emergere del culto. Una volta che si è definita la
stabilizzazione dello stesso si possono avere due tipi di evoluzione. I caratteri peculiari con il tempo si
attenuano ed il culto tende ad acquistare le caratteristiche di tolleranza e liberalità oppure esso può
progressivamente esasperare le sue caratteristiche. Gli attori sempre più impegnati nel gioco (ormai
patologico) per il raggiungimento del potere possono originare gruppi terroristici, satanisti, o dare
origine a suicidi di massa come il noto olocausto del People Temple.